Versione italiana




Vivere con una sola mano


È quando perdiamo l’uso di uno dei nostri arti che ci rendiamo conto a che punto questo è indispensabile. I gesti più banali diventano un calvario insopportabile e prendono dieci volte tanto più tempo a posare; mettere del dentifricio sul suo spazzolino da denti, infilare un maglione o le sue mutandine (il reggiseno, non ci pensiamo mica; con una sola mano, è impossibile), tagliare la sua carne ed anche dormire ci appaiono come delle scoraggianti avventure.

Nonostante tutte le difficoltà che provo nel mio quotidiano a causa del mio polso rotto, rimango positiva e mi dico che questa situazione è soltanto temporanea, che eventualmente, ritroverò il mio caro braccio sinistro. Altri non hanno questa fortuna; dopo una malattia o un incidente, è stato necessario amputargli un braccio o una gamba, addirittura tutto ciò. Penso tra l’altro a Marie-Sol St-Onge, questa giovane pittore, madre di famiglia, che è stata toccata da una fascite necrotizzante in marzo, dopo di che è stata imputata dei quattro arti. Ogni volta che vivo una giornata difficile, ho un pensiero per questa donna e la sua famiglia, così coraggiose.

Anche se so che la mia situazione non è mica la peggiore fra tutte, mi succede di essere invasa dalla frustrazione e dal scoraggiamento. Se si trattava solo di me, dell’impatto che questa ferita ha sulla mia vita, l'accetterei probabilmente meglio. Però, tutto ciò ha un’incidenza diretta sulle mie tre piccoline, di cui non posso più prendere cura in modo conveniente. Riesco a cullarle, una alla volta, e, a prezzo di un po’ di dolore, a farle bere, però niente di più. Non pervengo né a vestirle, né a cambiare il loro pannolino, né a preparare i loro biberon. Per ciò, devo contare sul mio formidabile F., che ha le braccia piene in questo momento, è il caso di dirlo. Oltre alle sue tre piccole fate, deve prendere cura di sua moglie, farle da mangiare, fare il bagno con lei (provate a lavarvi la testa con una sola mano, senza bagnare il vostro gesso, ovviamente). Si dice che avere un bambino è una prova per la coppia; ne avere tre di un colpo, quattro se contiamo la madre storpia, è un vero test per la solidità coniugale.

Vivere con una sola mano è una cosa; vivere senza questo contatto privilegiato con le mie bambine, senza poter dedicarmi interamente a loro è qualcos’altro, molto più faticoso. Quando Léa grida dal dolore perché ha delle coliche, che Béatrice si contorce perché ha fame o che Alice m’invoca perché il suo pannolino è pieno e che non posso far nient’altro che accarezzare il loro fronte e dirle che papà se ne viene, il mio cuore di madre vuole esplodere di collera. 

Durante la mia gravidanza, a causa dei rischi che ripresentava, ho dovuto apprendere l’abnegazione e la pazienza. Da quando le mie bimbe sono nate, più di tre mesi fa, continuo a lavorare sulla mia pazienza, oltre a sviluppare la mia fede – nella vita, nella natura, in tutto ciò che è più grande di me e che decide, alla fine, della mia sorte e di quella delle mie piccoline. Con una mano in meno, sono forzata ad imparare a delegare, a lasciare gli altri fare le cose al mio posto, in modo loro – non è evidente per un'indipendente perfezionista della mia specie. La mia situazione mi obbliga anche a staccarmi di ciò che succede, a conservare una distanza fra me e gli eventi, affinché non mi lasci portare dalle emozioni. Il rifiuto è per me una questione di sopravvivenza.

Probabilmente perché loro sono nate prematuramente, che fin da loro arrivo in questa vita ho sperimentato la paura e l’impotenza, che ho vissuto i loro primi mesi lontano da loro, un sacco di medici e d’infermiere fra me ed i loro corpi fragili, sono già profondamente cosciente che i miei figli non mi appartengono mica. Hanno il loro destino. La loro individualità ed il loro carattere sono già ben disegnati e non hanno importanza le mie tentativi per proteggerle dai pericoli, non potrei mai sottrarle da questo grande circo imprevedibile  ch’è l’esistenza. Sarà loro che dovranno battersi, decidere ciò che è giusto per loro, scegliere quello che vogliono essere. Io, potrò solo sostenerle, accompagnarle, assicurarmi che possiedono gli strumenti necessari per realizzare il loro disegno.

Tutto sommato, da oggi, polso rotto o no, vivrò solo con una mano; con la destra, baderò ai miei affari, scriverò, proverò a fabbricare del meglio con questo mondo che è il nostro e con la sinistra, vigilerò le mie bambine. Il mio palmo sulle loro teste, una presenza, un soffio; una parte di me sarà sempre con loro, anche quando si troveranno dall’altra parte della pianeta – perché saranno inevitabilmente delle grandi viaggiatori. A volte, oserò un dito che punta il camino. Tuttavia, queste strade che gli proporrò, non saranno mai tenute di seguirle. La mia mano gli servirà unicamente d’ispirazione e di conforto.




Diario di una storpia


Non ho scritto qui da un mese, per mancanza di tempo. Ho passato tutte queste giornate a vigilare le mie bambine all’ospedale, a guardarle crescere, a sperare che le ore trascorrano rapidamente quanto dei battiti d’ali di un colibrì e che così, ci avvicinino del momento in cui loro se ne venissero con me a casa. La settimana scorsa, mi sono sforzata a prendere due giorni di vacanza per riposarmi perché questo ritmo di vita cominciava a stancarmi. Però, siccome sono un’iperattiva incapace di fermarsi, ho piuttosto approfittato di queste giornate per mettere un po’ di ordine nella casa e per lavorare sul mio secondo libro, che uscirà all’autunno.

Sabato il 30 giugno, con F., avevamo deciso di andare all’ospedale presto la mattina per lasciare il latte materno di cui le piccole avevano bisogno per la giornata, poi di filare in Beauce, al chalet di mio padre, per approfittare del sole, passare del tempo con la famiglia e ricaricare le nostre batterie. Siamo arrivati un po’ prima del pranzo, abbiamo mangiato eccellenti « roteux » (del verbo ruttare – sono degli hot-dog) sulla griglia, lanciato qualche scherzo e ci siamo diretti nei pressi del lago. Certi facevano del Seadoo (moto d’acqua) mentre gli altri si facevano abbronzare o sorseggiavano una birra mentre stavano chiacchierando di tutto e di niente con il paterno (indovinate quale di queste attività era la mia). Il mio ragazzo, lui, aveva scelto di fare una piccola siesta nel chalet, esausto della digestione dei suoi hot-dog e del nostro quotidiano molto estenuante degli ultimi mesi.

Dopo il riposino di F., avevo voglia di fare una passeggiata in « quattro ruote » (un fuoristrada), peinard, i capelli nel vento e gli occhi perduti all’orizzonte. F., che non aveva mai fatto del quattro ruote, preferiva guidare lo stesso poiché, verosimilmente, non aveva fiducia nei miei talenti di « conducente fuoristrada ».  Mio padre ci ha lasciato il suo telefonino affinché possiamo raggiungerlo se rimaniamo in panna. Muniti dei nostri caschi, il cuore leggero e la testa piena di sole, siamo andati all’avventura.

La spedizione avrà durato solamente cinque minuti.

Eravamo ancora sulla strada, alla ricerca di un camino di terra dove potremmo penetrare, quando Francesco s’è fermato. « Ho della difficoltà a controllare il veicolo, devia costantemente sulla destra », mi ha detto. È nonostante ripartito, stando vigilante e tentando di compensare la deviazione del volante. Trenta secondi più tardi, siamo andati a finire nel fosso.  

Il quattro ruote è partito sulla destra, probabilmente a causa delle l’inclinazione della strada che era più accentuata a questo punto, e F. non è stato in grado di rettificare la traiettoria. Al primo momento, ho creduto che provava di fare una bugia, simulando di prendere un camino che non ne era uno. Invece no. F. non era semplicemente più il mastro della situazione. È appena riuscito a fare curvare il veicolo verso la sinistra in modo tale che non s’è completamente rovesciato su di noi nel fondo del fossato.

La scena ha durato due secondi e mezzo; ho avuto l’impressione che erano delle ore. Tutto ha sfilato così velocemente nella mia testa. Mi dicevo « merda, delle ‘’triplette’’ senza genitori, non è proprio una storia che finisce bene ». Finalmente, c’è stata più paura che danno.  F. è balzato in piedi, spinto dall’adrenalina. Ha visto che ero incapace di rialzarmi e s’è lasciato prendere dal panico perché pensava che la mia gamba era bloccata sotto il mastodonte o, peggio, che era stata tagliata dalla bestia. In verità, era soltanto la mia « gougoune » (sandalo, ciabatta) che era incastrata e che m’impediva di ricuperare la mia gamba. (Delle « gougoune », lo so, non è proprio un’attrezzatura ideale per fare del quatro ruote, però, alla fine, è grazie a quello che sono stata capace di uscire della mia trappola!)

F. era ossessionato dalla mia gamba, certo che era ferita, mentre provavo a farli capire che era il mio braccio il problema. Non riuscivo a rialzarmi, incapace di appoggiarmi al mio polso sinistro, che era tanto morbido quanto il fallo di un vecchietto che non riesce più a bendare davanti alle foto illecite di giovani donne che non hanno veramente l’età necessaria per fare della pornografia. Non sentivo il dolore. Era intorpidito dall’adrenalina. È solamente una volta seduta nella macchina di due buoni samaritani che passavano da questa parte e che hanno proposto di portarmi al chalet di mio padre che il dolore è apparso. Ed era vivo. Sapevo che non avrei la scelta di andare al pronto soccorso. Una giornata senza andare all’ospedale, non è possibile nella mia vita.

Ho aspettato due ore all’ospedale di Saint-Georges (San Giorgio) senza che niente succeda. Sono andata a parlare con l’infermiera per chiederle se secondo lei c’era la possibilità che io passi nel corso della prossima ora perché dovevo assolutamente tornare a casa mia per tirare il mio latte – nella tensione, una ragazza non pensa necessariamente a prendere il suo tiralatte. Secondo lei, ne avevo per almeno ancora un’ora ad aspettare. Dunque, ho deciso di tornare da mio padre affinché io possa vuotare i miei seni e così evitare di fare una mastite – ero già sufficientemente mal ridotta. Quando sono tornata all’ospedale, ovviamente, il mio nome era già stato chiamato. Siccome non ero presente, sono stata eliminata della lista dei pazienti. Avevo solo voglia di piangere. L’infermiera ha provato pietà per me e mi ha fatta passare subito perché considerava che il fatto di allattare era una ragione valevole per abbandonare momentaneamente la fila. Se avessi saputo che allettavo non solo un bebè, ma piuttosto tre bambine, avrei probabilmente avuto dritto ad un massaggio dei piedi, in più della sua pietà.

Sono uscita dell’ospedale un po’ dopo le undici della sera. Senza gesso. Perché gli ortopedici non lavorano la sera. Né la fine settimana. Ancora meno il giorno della Confederazione (la festa nazionale del Canada). Neanche il lunedì dopo. Insomma, ho avuto il mio gesso solo 72 ore dopo l’incidente. Per quello, ho dovuto aspettare altre quattro ore all’ospedale di Lévis. In Italia, due ore in totale sarebbero state sufficienti per sistemare il mio problema. A volta, mi chiedo perché non sono rimasta lì per partorire. Tanto più che in questo paese, il quattro ruote non è uno sport molto popolare. Però, visto il mio destino, mi sarei probabilmente fratturato il polso in un altro modo. Forse a causa di un salame lasciato per terra per una ragione misteriosa. Almeno, laggiù, avrei potuto ubriacarmi per dimenticare i miei problemi senza che mi costi un occhio della testa (*in francese diciamo anche « costare un braccio »…).




La terra che trema


I tempi sono cambiati. La terra ha tremato. La mia vita non sarà mai più la stessa.

Ho fatto un lapsus mentre stavo scrivendo questa frase: ho scritto la « mia » piuttosto che la « stessa ». La mia vita non sarà mai più la mia. Perché sono una mamma. La madre di tre meravigliose bambine piene di coraggio e di vigore. La mia unica priorità d’ora in poi è di assicurarmi che loro stiano bene, che abbiano tutto il necessario per guarire, crescere e diventare delle piccole umane sorprendenti.

Quando ero incinta, ne avevo l’impressione, adesso, ne sono sicura: Léa, Alice e Béatrice cambieranno il mondo. Hanno prima cambiato il mio, poi, presto, cambieranno il vostro. Sono venute qua perché avevano grandi cose da compiere. Circondate degli altri bambini della loro generazione, si occuperanno di modificare il corso della storia, di por fine al nostro torpore, di far avanzare le cause più nobili. Di realizzare i sogni che coviamo da molto tempo ma ai quali non abbiamo mai avuto la forza di dare vita.

Tutti s’intendono per dire che si passa qualcosa di straordinario in Québec in questo periodo – straordinario nel senso di « al di là dell’ordinario ». Assistiamo allo sveglio d’un popolo che per troppo tempo si è lasciato addormentare dai discorsi politici ed altri potenti sonniferi. La gioventù ha invaso le strade e gridato al viso dei loro antenati ciò che si meritavano. Parecchi, molto meno giovani, hanno seguito le loro orme e scelto di militare presso dei loro bambini. Un incredibile slancio di solidarietà si è impossessato dei cittadini, dei vicini individualisti a chi non avevamo mai parlato prima, dei tizi meno politicizzati. Le persone scendono insieme in strada per far valutare una causa comune. Sembra che scopriamo di nuovo il senso delle parole bene comune e progetto di società.

È in questo contesto effervescente che ho dato alla luce le mie « triplette ». Ed a una scala più personale, ho potuto constatare a che punto la gente può essere generosa, solidale e devota. Ho ricevuto delle decine e delle decine d’incoraggiamenti, dei doni in denari, delle scatole di vestiti, dei giochi, diversi articoli per pupi, la maggior parte del tempo da parte di persone che conoscevo più o meno. Degli sconosciuti hanno dato prova di un incredibile grandezza d’animo verso di me. Molti si sono lasciati toccare dalla mia storia. Commossi, hanno voluto contribuire, con dei piccoli gesti, delle parole sincere. Non avrei mai pensato che una nascita potesse sollevare tanto entusiasmo e provocare delle onde di bontà così belle. Grazie alle reazioni che la loro venuta ha provocate, già, Léa, Alice e Béatrice hanno per me cambiato il mondo o, almeno, l’opinione che avevo di questo.

Il mondo cambia, sì. Si muove. In senso proprio come in senso figurato. In Italia in questo momento, vibra senza posa. Sotto i piedi impauriti, la terra si muove. Il paesaggio si rifoggia e fa fremere un popolo sperduto davanti alla forza inespugnabile della natura. La città d’origine del padre delle mie bambine è presentemente « zona rossa ». In stato d’allarme. Il centro storico è chiuso da parecchie settimane, a causa della minaccia di crollo di certi edifici – dei quali certi risalgono al Medioevo. Se ero rimasta in Italia come previsto, sarei probabilmente sul punto di partorire all’aperto, perché l’ospedale di Carpi è stato chiuso ed i pazienti sono stati mesi sotto delle tende nel parco adiacente. I nonni delle triplette, che non possono far nient’altro che sperare che le scosse si attenuino e che il calma ritorni, passano le loro giornate ad aspettare che il tempo trascorra e che arrivi il momento della loro partenza per il Québec, dove verranno in agosto. Guardano le foto delle loro nipoti e ciò gli da il coraggio necessario per passare attraverso di questa prova. Léa, Alice e Béatrice, piccole portatori di speranza. Volti ispiranti, espressioni calmanti, sguardi determinati.

La terra trema. Il mondo cambia. Il futuro è incerto ed il presente, confuso. In tutto questo caos, i bambini sono l’unica certezza che possiamo avere. Grazie a loro, vinceremo. La vita avrà ragione, tutto ciò che tenta di sbiadirla, di seppellirla, di romperla, perirà sotto gli armi dei guerrieri solidali.  



***


                                                          La gravidanza è una bugia

La gravidanza è una bugia. Nessuno ci dice la verità su ciò che comporta. Le nostre madri, le nostre nonne, le nostre sorelle, le nostre amiche, tutte coloro che hanno vissuto ciò prima di noi omettono di rivelarci il vero rovescio della medaglia. Non per cattiva fede, ma per pura e semplice dimenticanza.

Subito dopo il parto, le donne sembrano avere già dimenticato ciò che significava portare un bambino. Annebbiate dalla bellezza del loro pupo appena espulso, non pensano più al dolore, agli svantaggi, ai limiti o ai divieti che gli erano stati imposti; non hanno occhi che per la loro progenie. I ricordi spiacevoli si cancellano magicamente – probabilmente grazie alla secrezione di un ormone qualsiasi, poiché non si fa che questo, produrre dei maledetti ormoni, quando si è incinta.

Tuttavia, gli aspetti negativi legati alla gravidanza sono una legione, e molto reali. Ogni donna vive questo periodo in modo differente, ma veramente, ce n'è una sola che possa dire che queste 40 settimane sono state per lei pura felicità? Se sì, vorrei incontrarla. Per chiacchierare insieme, per darmi i suoi segreti – o i suoi geni.

Come molti (o ero io così naif in materia ?) credevo che i principali disagi della gravidanza fossero le nausee delle prime settimane e le smagliature che appaiono verso la fine. Tra le due, credevo che la donna fosse colmata da un'incredibile pienezza, che si sarebbe riflessa anche sul suo viso (non si dice che la pelle delle donne incinte è splendente? – ci si dimentica gentilmente di menzionare che può anche essere soggetta ai brufoli...). Nella mia testa di ragazza non avvisata, essere incinta significava avere il privilegio di partecipare dall'interno alla fabbricazione dell’esistenza, stabilire un legame eccezionale col bambino che stava per nascere, acquistare le cose per il bebè con brio e dinamismo, trasportata dall'energia della vita che si sviluppava in me.  Ha. Ha. Ha. Come ho potuto essere così candida. È quasi rinfrescante.

D'accordo, la mia condizione è particolare. Portare tre bebè, non è come portarne uno solo. Ma giustamente, questo è il mio primo " what the fuck ": com'è potuto succedere che io, piccola rossa naif, abbia ereditato tre feti invece di uno, quando migliaia di donne hanno difficoltà a procreare? Ci mettono anni a concepire un solo bebè, con l'aiuto di dottori e pillole, e io, bang! dopo un solo mese di tentativi, mi trovo con un carico triplo. Nessuno mi aveva detto che poteva succedere ciò. Ovviamente, sapevo che la tripletta era un fenomeno che esisteva, ma questo tipo di nascita multipla è statisticamente così insignificante che non si pensa che ci possa capitare. Soprattutto quando non si fa nessuna cura per la fertilità.

Il mio primo avvertimento, dunque: signore, non pensate che siete superiori a tutto questo. Anche voi potreste avere una gravidanza multipla – anche solo di due gemelli. Sapevate che attualmente in Quebec, una nascita su 80 è gemellare? E' molto. Veramente molto. Se avete sempre voluto avere un solo bambino, non di più, pensateci due volte prima di fare l'amore senza preservativo.

Forse sono un po’ amara in questo momento, perché dalla mia 21.ma settimana sono a riposo forzato e ciò non appartiene per niente ad un'iperattiva come me, ma devo comunque avvisarvi: il riposo forzato non è un'esclusiva delle mamme delle triplette. Ho scoperto che parecchie mamme sono state costrette a restare a letto in diversi momenti della loro gravidanza, per varie ragioni, e la maggior parte di loro portavano un solo bambino.

La verità è che la gravidanza è un'esperienza sempre più medicalizzata e che più si va avanti, più i dottori cercano di prevenire cose di cui, prima, non ci si preoccupava per mancanza di conoscenze o di tecnologie. Quando le nostre madri e prozie ci raccontano che lavavano il pavimento in ginocchio fino alla 39.ma settimana, non è perché erano più forti di noi, ma semplicemente perché non vedevano il loro dottore così spesso come noi e che così, di conseguenza, non poteva mettere un freno ai loro slanci esagerati. Inoltre si può aggiungere che le future mamme di una certa epoca erano un po' meno docili (o spaventate dai discorsi medici ?) di quanto possiamo essere noi oggi. Per esempio, mia suocera, dopo alcune settimane della gravidanza, ha avuto delle perdite di sangue. Il dottore le aveva detto che forse avrebbe dovuto passare il resto della gravidanza sdraiata, per evitare di perdere il suo bambino. Dopo tre giorni, non ne poteva più. Ha deciso di riprendere le sue attività normalmente, dicendosi che se il bebè era fatto per vivere, si sarebbe rimesso. Alcuni mesi dopo, ha dato alla luce colui che è diventato mio marito – un uomo chiaramente in salute poiché mi ha confezionato una tripletta. Da parte mia, se io oso restare in piedi 5 minuti per
sgranchirmi, perché non ne posso più di restare semi-orizzontale, vengo ripresa dalla mia famiglia al gran completo, che mi ingiunge di ritornare sul mio divano.

Secondo avvertimento: sì, la gravidanza è un fenomeno del tutto naturale, ma noi viviamo in un'epoca in cui non è possibile viverlo come tale – a meno di essere più resistente ai discorsi intorno a te di quanto non lo sia io. Se tutto va bene, voi non avrete che « un solo » appuntamento al mese durante i primi mesi poi, verso la fine, sarà ogni due settimane e, giusto prima del termine, uno alla settimana. Ma non appena la vostra gravidanza rappresenta un probabile rischio, vi bombardano di incontri col dottore. Vi auguro dunque di avere un titolare comprensivo – o di non avere un lavoro, come me. Oltre la preoccupazione che ciò può rappresentare nel prendersi continui congedi per le visite, voi sarete stanche. Veramente stanche.

Ho parecchie amiche a me vicine che in questo momento sono incinte e, fortunatamente per loro, le loro gravidanze sono meno complicate della mia – diciamo così: hanno la fortuna di essere normali. Saranno probabilmente più o meno d'accordo con alcune cose dette finora. Tuttavia il mio scopo non è di parlare della gravidanza in generale, ma di essere onesta descrivendo come tutto ciò può anche passare, al di fuori delle recite bucoliche riempite di canti d'uccelli, di coriandoli e di raggi di sole che noi sentiamo spesso.

Però, ci sarà una cosa sulla quale tutte saranno d'accordo: la stanchezza. Tutte le "pregnanti" (sì, sì, questa parola esiste) che mi circondano hanno confermato che durante il loro primo trimestre si sentivano spossate. Una delle mie amiche mi aveva detto: " Preparati, è peggio di una mononucleosi ! " Fortunatamente, l'energia ci ritorna durante il secondo trimestre – ma solo per far posto a problemi diversi (bruciore di stomaco, mal di schiena, difficoltà a dormire, comparsa delle prime smagliature e varici, angiomi, etc.). Tuttavia, anche se vi sentite piene d'energia, attenzione a non sovraccaricarvi. Avrete spesso l’impressione di poter fare tutto come prima, ma spesso non è che un'illusione. Il vostro corpo effettivamente ha dell'energia, ma in gran parte è riservata allo sviluppo del  (dei) bebè. Sapevate che, per provvedere ai bisogni del feto, il vostro volume sanguigno aumenta circa del 50%? E sì, è il vostro cuore che dovrà pompare tutto questo liquido. E' dunque possibile che dopo una semplice camminata di 20 minuti, vi sentiate come se aveste fatto una mezza maratona.

Terzo avvertimento: liberatevi subito dell'immagine della donna incinta super woman che non solo svolge tutte le sue attività come prima, ma che in più è iscritta a un corso di yoga prenatale, a due sedute settimanali in piscina e che trascorre i sui week-end a fare acquisti, in cerca dei migliori affari sui vestitini griffati per i bimbi (da non confondersi coi vestiti per bambini griffati). Incinta, occorre imparare a vivere giorno per giorno. Non si possono programmare troppo presto le proprie attività, perché non si può sapere quanta energia sarà rimasta. Più si prosegue, più si ha voglia di sostituire i pomeriggi tra amiche con pomeriggi indolenti sul sofa.

Avrei altri avvertimenti da dare, ma, siccome il mio obiettivo non è di far diminuire il tasso di natalità fin troppo basso in Quebec, nella prossima cronaca vi prometto che metterò in evidenza alcune gioie legate alla gravidanza. In attesa non dimenticate, signore, di prendere la vostra pillola contraccettiva prima di andare a letto stasera.

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Questa stagione non è l'inverno


Ultimo giorno di novembre. La follia del periodo delle feste comincerà presto. I miei suoceri, che possiedono ciascuno un negozio, lavoreranno sette giorni su sette fino al 24 dicembre per soddisfare le voglie di consumo eccesivo dei più esigenti clienti. Per quanto mi riguarda, non ho mai sentito il Natale così lontano, così sfumato, così improbabile.


Per me, il Natale che si avvicina, è la prima nevicata, la via Sainte-Catherine invasa dalla slush (tipo di fango) e dai passanti che si trascinano gli stivali e che si lamentano perché fa troppo caldo nei sotterranei della metropolitana; Natale significa le decorazioni da Simons (un negozio di vestiti dove ho lavorato per anni), le passeggiate sul corso Mont-Royal, una pausa dal Première Moisson (una pasticceria) per prendere una tazza di cioccolata ed un dessert troppo cochon (letteralmente « maiale » – usiamo questa parola per dire che una cosa è decadente, estremamente buona), l’odore delle clementine mescolato a quello dell’abete appena raccolto al Mercato Jean-Talon, i miei gatti che giocano con le ghirlande, i film a Télé-Québec, un viaggio in treno fino a casa dei miei genitori a Québec, una serata di giochi e di risate con le mie sorelle, mio fratello, i miei genitori, mio nipote, delle giornate intere in pigiama a guardare la tv da mia madre, un lungo bagno caldo, leggere un libro mentre c’è una tempesta fuori e, l’indomani, andare a fare un giro con le racchette da neve nel bosco o del pattinaggio all’anello di ghiaccio del quartiere. Qui, non c’è niente di tutto ciò.

La neve è sostituita dalla nebbia e l’umidità.  Io, la Canadese, colei che viene del Nord, che ha conosciuto i meno quaranta gradi Celsius, passo le giornate a dire che ho freddo. Il termometro italiano ha un bel annunciare una temperatura esterna di cinque gradi, batto i denti, perché l’umidità fora la pelle, penetra tutti i tessuti e ricopre le ossa. Passo le mie giornate con una doudou (coperta) addosso, a sognare al freddo di casa nostra, bianco e secco.

Tranne sognare al vero inverno, confesso che non faccio un gran che. Non ho voglia di scrivere in questi tempi. Non è per niente che la settimana scorsa, per la prima volta da quando sono partita, non ho alimentato questo blog. Il mio computer mi disgusta. Il mio corpo rifiuta di stare seduto per delle ore davanti allo schermo. Non che non ho più idee, soltanto, quelle che possiedo vorrebbero poter esprimersi in un modo più fisico, concreto, umano. In questo momento, le parole non mi bastano. Ho bisogno d’immagini, di gesti, di sensazioni tattili, di colori, di sudore. Son ben lungi dal pensare di abbandonare la scrittura. Desidererei semplicemente completare la scrittura, trovarle una compagna, un altro mezzo d’espressione che potrebbe appagare in me le voglie che la scrittura non perviene a saziare. Ho dei fantasmi di teatro, di bricolage, di pittura, di découpage (« il tagliare »), di fotografia, di danza.

Nel bel mezzo di una scenografia invernale, bordata di bianco e di rami morti, un’immensa scena dove si tiene una giovane ragazza dai capelli rossi, vestita di viola e d’arancione. Lei parla, gesticola, deambula, avanza, va indietro, s’indirizza a una folla che non esiste. Perché questa stagione non è l’inverno. 

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Il metodo italiano - una lunga e lenta agonia



Ieri, un po’ più di due mesi dopo essermi iscritta al corso di guida, sono finalmente andata a fare l’esame di teoria. Mi sarebbe piaciuto andarci prima, però, l’amministrazione italiana non voleva. Tanto è stata molto rapida ed efficace quando era necessario rilasciarmi un permesso di soggiorno, una tessera sanitaria ed una carta d’identità, quanto lei ha proprio preso il suo tempo per permettermi di fare questo esame del cavolo. 


Non ho mai visto tanti tempi tecnici inutili per una cosa così semplice. Primo, ho dovuto fare sei settimane di corso teorico. E quando dico sei settimane, sono sei settimane, cioè un’ora di corso tutti i giorni, dal lunedì al venerdì. Infatti, sono unicamente sei ore di corso obbligatorie in più che in Québec, soltanto, questi corsi sono concentrati all’inizio, anziché essere estesi su parecchi mesi. Devo ammettere che uno dei vantaggi maggiori di prendere la mia patente qui è che non avrò bisogno di aspettare dieci mesi prima di sostenere il mio esame pratico e di ottenere la mia patente: appena mi sentirò pronta, potrò farlo. In breve, mi lamento, ma non è necessariamente meglio da noi. Comunque, lasciatemi il piacere di dolermi ancora un po’…

Dopo aver fatto le famose sei settimane di corso, pensavo che avessi potuto sostenere l’esame teorico direttamente; mi mettevo la mano nel occhio. Ho dovuto fare non una ma due visite dal medico. Una volta, sola una era necessaria, però, da gennaio 2011, le regole applicate al conseguimento di una patente e quelle riguardanti la guida dei neopatentati sono state enormemente ristrette. Hanno tra l’altro creduto che fosse una buona cosa  obbligare la gente ad andare dal loro medico di famiglia affinché gli faccia firmare un modulo che attesta che non ha né problemi cardiaci, né problemi di epilessia, né non so cosa ancora. Ho la fortuna di aver un medico di famiglia qui (2 milioni di Québécois non ne hanno neanche uno da noi), però, era comunque un po’ ridicolo pagare 35 euro perché lei firmi questo modulo, visto che quando sono entrata nel suo studio, era la prima volta della sua vita che mi vedeva, dunque, cosa ne sapeva, lei, se soffrivo di epilessia, di crisi di nervi, di acne pubico o di crisi cardiache a ripetizione?! Lei ha intascato i miei 35 euro e mi ha creduto sulla parola quando le ho detto che ero in piena forma.

La seconda visita era ancora più ridicola. Prima, c’era solo questa. Si tratta di andare a vedere il dottore trentaquattro, che deve il suo nome ai 34 euro che dobbiamo pagare per vederlo, che conferma se abbiamo bisogno di occhiali da vista o di lenti a contatto per guidare. Prima, valutava anche la salute globale del paziente chiedendogli due o tre domande stupide, ma poiché adesso è il medico di famiglia che si occupa di questa parte, lui, tutto ciò che ha dovuto fare, è chiedermi qual era la forza dei miei occhiali (in quanto grande osservatore, ha notato che ne portavo). Dopo, mi ha chiesto di leggere delle lettere su un grande cartone bianco e ha confermato che vedevo un minimo di ciò che succedeva intorno a me con i miei occhiali. La visita è durata un minuto. Avanti un altro! Seriamente, voglio il lavoro di questo tipo: sedermi tutti i venerdì per due ore in un piccolo ufficio e vedere una trentina di pazienti per firmargli un foglio sul quale scrivo le informazioni che mi danno loro stessi. Non ho neanche bisogno di verificare un bel niente, solo di incassare i 34 euro a testa e di andarmene al bar dopo per festeggiare. Trenta persone per 34 euro fanno 1000 euro in due ore… E gli Italiani si chiedono perché l’economia del loro paese è in crisi.

Dopo aver pagato un totale di 70 euro per farmi dire che avevo l’aria di scoppiare di salute, credevo di essere a posto per poter finalmente andare a fare l’esame: altro braccio nell’occhio. Mi sono resa alla scuola di guida, dove mi è stato detto che occorreva prima far venire il mio foglio rosa e che ciò prenderebbe una settimana. Dopo quest’altro tempo tecnico, dovevo solo presentarmi di nuovo alla scuola per prendere l’appuntamento per l’esame – non per farlo, tuttavia, voi esagerate, ciò sarebbe stato troppo facile.

Sono stata paziente e, sette giorni più tardi, mi sono presentata alla scuola come d’accordo. Gioia! Il mio foglio rosa era bellamente arrivato, la mia pratica non aveva incontrato nessun problema (avrei ucciso qualcuno se fosse stato il caso); dunque potevo prendere il mio appuntamento. La signora mi ha chiesto quando volevo far il mio esame, specificando che non andava prima della settimana del 14 al 19 novembre (eravamo verso il 3 novembre). Bene, non ho veramente scelta allora, facciamo questa settimana, se è la prima che avete, criss (a volte, l’ammetto, bestemmio in francese, nessuno capisce, si continua a guardarmi con il sorriso senza sapere che ho appena detto delle parolacce e ciò mi permette di sfogarmi). La signora dietro il banco mi ha specificato che non conosceva la data esatta dell’esame e che dovrei passare (annnnnccccoooorrrrraaaa) alla scuola il giovedì seguente per vedere in quale giorno precisamente il test si svolgerebbe. Una lunga e lenta agonia, ecco cos’è, volere prendere la propria patente in Italia.

L’esame al quale mi ero iscritta si svolgeva il mercoledì 16 novembre. Ieri. Non ci potevo credere. Martedì, ho ripassato un po’, tanto per non cannare il giorno dopo e per non dover  rifare una parte di questo interminabile processo e, ancora peggio, pagare parecchie volte gli 80 euro richiesti per fare l’esame.

Ieri, mi sono presentata alle 7:45 alla scuola guida. I dieci allievi (per la maggior parte dei prepuberi, ovviamente – avevo l’aria di una vecchia zia di fianco a loro) iscritti all’esame dovevano ritrovarsi in questo luogo affinché qualcuno ci porti a Modena, dove si trova la Motorizzazione civile e dove si fanno tutti gli esami di tutti gli abitanti della provincia.

Siamo ovviamente partiti con del ritardo e c’era ovviamente del traffico sulla strada, dunque siamo arrivati verso le 8:50 a Modena. Ciò non cambiava un gran che poiché la sala di esame era già occupata da un altro gruppo di giovani. Quindi abbiamo aspettato che coloro finiscano l’esame (30 minuti al massimo sono accordati per completarlo), che ricevano i loro risultati, che liberino lo spazio e che qualcuno chiami i membri del nostro gruppo uno ad uno. Penso che abbiamo finalmente iniziato l’esame verso le 10.

Prima di cominciare, l’esaminatore, una donna spaventosamente scorbutica, secca ed amara (una funzionaria, comunque) ci ha spiegato la procedura e i regolamenti – sorpresa, non avevamo né il diritto di parlare fra di noi né colui di guardare dentro i nostri libri. Ci ha chiesto di recarci su una certa pagina sul computer e vedeva sul suo schermo che qualcuno fra di noi non ci era ancora. Lei ha detto « Chi non vede questa pagina sul suo schermo? » Silenzio nella sala. Ha ripetuto la sua domanda tre volte, sempre alzando il tono, per finire per urlare « Allora, dovrò fare il giro di tutti i computer per vedere chi non è sulla pagina giusta? » Finalmente, un ragazzo ha capito che era lui che era in errore. Con tenerezza e comprensione, gli ha lanciato « Mannaggia, capisci l’italiano, tu?! » Disagio. Lei ha portato il ragazzo sulla pagina giusta e ha continuato le sue lunghe e inutili spiegazioni. A un certo punto, una ragazza nel fondo della classe ha tirato un sospiro, che mi sembrava un sospiro di stress più che un sospiro di noia, ma l’isterica l’ha presa personale e si è messa a dirle di tutti i colori « Vi ricordo, ragazzi, che siete qui per vostra propria volontà. Se non siete contenti, andatevene, non c’è nessuno che vi forza. » Mi scusi, ma sì, signora, infatti, c’è solo il governo che ci forza, non abbiamo proprio scelta nel fare questo esame di merda, dunque, si può calmare e lasciarcelo fare in pace?!

Mentre l’altra folle s’innervosiva, sul mio schermo, la pagina dell’esame è apparsa da sola. Vedevo il contatore scendere tranquillamente. 29 :59, 29 :58, 29 :57… E l’altra che non smetteva di mandarci a cagare. Aver avuto più fiducia nel mio italiano, le avrei probabilmente detto che l’esame era cominciato e che avrei apprezzato che mi lasciasse compierlo in silenzio, però, è probabilmente una buona cosa che io sia mancata di fiducia in questo momento, perché mi sarei certamente fatta espellere della sala.

Ho finito per far il mio esame. In italiano. Avrei potuto chiedere di farlo in francese, perché in certe provincie del Nord Italia il francese è una lingua ufficiale, come il tedesco, quindi è possibile fare l’esame in una di queste due lingue, però, consideravo che ciò sarebbe stato ancora più difficile, poiché avevo studiato tutto in italiano e che non conoscevo necessariamente i termini tecnici nella mia propria lingua. Non ho avuto diritto alle domande più difficili, fortunatamente. Ho lasciato la sala dopo una quindicina di minuti.

Qui, non è come in Québec, non sappiamo man mano se abbiamo risposto bene o no ed il risultato non appare sullo schermo subito dopo aver finito. Una lunga e lenta agonia, ve lo dico. Abbiamo dovuto aspettare che tutti finiscano il test ed escano della classe. Solo a quel momento, la funzionaria che non si fa abbastanza fottere da suo marito baffuto ha potuto stampare i risultati. Lei ci ha allora richiamati nella sala e ha detto il nome di tutti gli allievi ad alta voce, precisando chi aveva superato o no. In modo da far vergognare chi era venuto a fare il test con i suoi amici… Il mio nome impronunciabile era alla fine, ovviamente – Véréhaoult, che dicono, gli Italiani (invece, si dice «Verrò»). Fortunatamente, era seguito dalla menzione « riuscita ». La maggioranza l’ha superato, salvo due o tre ragazzi credo – i villani, non avevano studiato abbastanza.

Una cosa fatta. A questo punto, dovevamo solo tornare a Carpi per celebrare la nostra vittoria. Ora, il responsabile della scuola di guida che ci aveva portati a Modena era introvabile. Non sapevamo cosa eravamo supposti fare, qual era il seguito, se aspettavamo la nostra patente, i nostri risultati più precisi o il Messia. Abbiamo aspettato il tipo per quasi 15 minuti, dopo di che qualche persona ha deciso di andare al bar, un centinaio di metri più lontano, per fare colazione. Che buona idea, ragazzi. Ovviamente, il tipo è riapparso 5 minuti dopo che loro sono partiti. Gli abbiamo detto che gli altri erano al bar, lui ha risposto « Non c’è problema, ce ne andiamo in 10-15 minuti comunque ». Anche lui sembra esser andato a prendersi un caffè. Nel frattempo, i ragazzi sono tornati. Il tipo ci ha messo parecchi lunghi minuti prima di arrivare anche lui. E abbiamo finalmente potuto partire. Erano quasi le undici. Non ho ancora capito cosa aspettavamo durante tutto questo tempo.

Una volta alla scuola guida di Carpi, il tipo ci ha fatti scendere e ci ha detto buona giornata. Ok, ma… cos’è il seguito, capo?! Nessuno diceva niente. Non sapevo quante domande avevo sbagliate esattamente né quali ed ignoravo quando avrei finalmente la mia patente in tasca. Sono andata a vedere la segretaria (lei ed io cominciamo ad essere molto amiche, ci vediamo tutte le settimane, ‘stie). « Dunque, qual’è la prossima tappa? », che le ho chiesto. « Bene, dobbiamo fare stampare la tua patente. Dovrebbe essere pronta in circa una settimana. Ti chiamerò quando sarà il caso. Dopo, potrai cominciare a fare le guide, sia a casa, sia con un istruttore. » Ancora una settimana di attesa. Per fare stampare un cavolo di foglio. Deve essere dell’inchiostro veramente speciale. Pensavo che l’avevano fatto venire due settimane fa, il mio foglio rosa! Doveva essere solo un « specimen ». F. dice che è così perché devono far venire il coso da Modena. Sì, però, io, c’ero 30 minuti fa, a Modena, ad aspettare come una bella oca, mentre non succedeva niente, avrei potuto farla stampare, la mia calvâsse di patente e saremmo stati a posto, batinse. No, ciò sarebbe stato troppo facile. Troppo semplice. Qui, devi metterci 4 ore a far un esame che dura infatti 15 minuti. E quando potrò finalmente guidare, durante i primi tre anni, non potrò superare i 100 km/h sull’autostrada, mentre il limite è di 130 km/h per gli altri – un'altra regola che è stata ristretta in gennaio 2011. Una lunga e lenta agonia.

In Italia, le cose devono essere complicate, se no, non sono proprio italiane.





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Blackout radiofonico


Questa settimana, per la prima volta da quando sono arrivata in Italia, non avevo voglia di scrivere questo blog. Non perché non avevo niente da raccontare – non sono mai a corto di storie –, ma piuttosto perché mi sono a cosa ciò serviva.


Questo blog, lo scrivo in parte per me, certamente; è una sorta di libro di bordo, un luogo di memoria e di riflessione, che mi permette di fare il punto, di mettere la mia esperienza in prospettiva. Però, lo scrivo innanzitutto e soprattutto per gli altri – come quasi tutti i testi che produco. Il diario non mi interessa. Se scrivo, è per comunicare. Condividere, fare sorridere, toccare, commuovere, interrogare. E la mia più bella ricompensa, è quando le persone rispondono al mio appello. Che si prendono la briga di reagire ai miei testi, di esprimermi ciò che hanno provocato dentro di loro, di testimoniarmi la loro collera o la loro gratitudine, la loro incomprensione o il loro disaccordo. Tuttavia, qui, nessuno mi risponde mai. Blackout radiofonico.

Certo, le peripezie che vi racconto non si prestano veramente alle discussioni, ciò nonostante, sto convinta che spesso, meriterebbero di essere contraddette, approvate, alimentate, rimesse in discussione. Ciò che nessuno non fa mai. Allora, a cosa serve? Questa scrittura unidirezionale mi riempie poco.

Trovo difficile di non aver praticamente mai notizie delle persone che ho lasciate dietro di me (tranne mia madre, che si è una passione per Skype, e due o tre persone, un po’ più inclini a prendere la tastiera). La mia principale fonte di informazioni, sono gli statuti Facebook. Un po’ patetico. È principalmente grazie a loro che so cosa succede nella vita dei miei amici. Il problema viene forse da Facebook stesso, nel senso che la gente si dice che non ha bisogno di scrivermi direttamente poiché sa che posso apprendere tutto tramite il suo profilo. Eppure, non passo tutte le mie giornate a spulciare la bacheca di ciascuno dei miei amici per vedere cosa c’è di nuovo nella loro vita. Si rendono a me unicamente le notizie che Facebook seleziona e mette nella mia sezione « Notizie ». In breve, sarebbe meglio dire che ignoro tutto ciò che vi succede, cari amici del Québec.

So che la maggior parte di voi non mi scrive col pretesto che il suo quotidiano non ha niente di interessante, che la vita fa il suo corso e che gli eventi notevoli si fanno rari. Ma cosa me ne frega degli eventi notevoli, a me, sono i dettagli insignificanti che interessano! Smettete di pensare che la vostra vita non merita di essere raccontata. Che perché sono in Italia, la mia esistenza è degna di essere messa in parole, mentre la vostra, no. La vita italiana non vale più che la vita québécoise.

Altri mi risponderanno che, semplicemente, non gli piace molto scrivere, che la redazione di email gli rompe le scatole e che preferiscono di gran lunga parlare a viva voce. Bene. Iscrivetevi su Skype allora ! Se la mia non tecnologica madre l’ha fatto, voi anche potete farlo! Passo le mie giornate davanti al computer e non aspetto nient’altro che quello, di essere disturbata da qualcuno che aveva voglia di salutarmi.

Alla nostra epoca, la varietà e l’onnipresenza dei media e dei mezzi di comunicazione non offrono più nessuna scusa alle persone che cercano di spiegare perché non si fanno mai vive. Questa varietà e questa onnipresenza rendono pure ancora più amara la delusione nel cuore di quelli che stanno senza notizie dei loro parenti, perché sanno bene che non sono i mezzi di comunicazione che mancano. Allora, cosa manca? L’interesse, probabilmente.

Gli esiliati moderni soffrono dell’abbondanza dei mezzi di comunicazione, che evidenzia esageratamente il fatto che la maggior parte del tempo il loro telefono ed il loro cellulare restano muti, mentre le loro numerose cassette elettroniche e le loro buche delle lettere dimorano vuote. I pellegrini medievali, i nomadi del deserto e i soldati mandati nell’altra parte del mondo durante le parecchie guerre dei secoli precedenti non speravano ricevere delle notizie di chiunque. Allora, quando una lettera, un telegramma o un piccione viaggiatore si presentavano alla loro porta, non potevano provare altro che sorpresa ed estasi. Essendo nulle le attese, pura ed intatta era la gioia. Oggi, siccome le aspettazioni sono elevate, la gioia ha immancabilmente un fondo di tristezza.

Sono più che cosciente che la maggior parte di voi ha altre cose da fare che mettermi al corrente del minimo movimento sopravvenendo nella sua esistenza, ma non credo che sia così lungo ed esigente di battere qualche riga a macchina e di schiacciare su « Send ».

Non so cosa mi aspettavo esattamente. Sospettavo che esiliandomi, perderei il filo e mi disconnetterei delle persone di cui condividevo prima il quotidiano, ma non penso che avevo capito a che punto troverei difficile di essere così esclusa da queste vite che innanzi facevano parte della mia. Non sono arrabbiata, soltanto un po’ disingannata, triste a volte. Di rendermi conto che tutte le relazioni umane, anche sincere e profonde, resistono difficilmente agli scogli della distanza. Navighiamo sempre da soli. 



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La festa dei morti


Non so se ho paura della morte. Provo certamente un sentimento strano quando ci penso, però, ignoro se è proprio paura. Sarebbe piuttosto un’ambiguità, un’esitazione, una curiosità. Non ho mai veramente conosciuto la morte da vicino. I miei quattro nonni sono ancora vivi, il resto della mia famiglia è in buone condizioni di salute, i miei amici sono nati sotto una buona stella, come me, comunque, la vita è al culmine attorno a me e la morte mi appare ancora come una vaga possibilità, una finalità incerta. Occorre morire, veramente? Tuttavia, la vita è così forte. Occorre morire? Peccato. Mi piace molto qui, a me.


Da quando sono arrivata in Italia, parecchia gente è morta. Degli sconosciuti, per la maggior parte, ma anche dei parenti, tra cui il nonno di F., ovviamente. Delle star, tra cui la povera Amy, questo caro signor Jobs e l’infame K., come illustri stranieri. La morte ritma il quotidiano. I giorni si contano in termine di decessi. Nel mondo, solo di fame, muoiono quasi 24 000 persone ogni giorno. Un’ora equivale a 3600 secondi ed a mille morti.

Moriamo. Dappertutto. In Québec, in Cina, in Sudan, in Texas, a Cuba, in Argentina. Certi decedono in seguito ad un accidente ridicolo, altri a causa di una lunga malattia o di una pallottola nel cuore; altri ancora non fanno altro che dormire un po’ più forte, di un sonno liberatore, alla fine di un’esistenza ben riempita. Dal 31 ottobre 2011, la popolazione della Terra è valutata a 7 miliardi di umani. Dunque esistono ormai 7 miliardi di modi di morire.

Ignoriamo tutti come lasceremo questo mondo. Tuttavia, abbiamo il diritto di sognare e di sperare che sarà in un modo né troppo brutale né troppo lento e doloroso. Personalmente, spero di morire vecchia. Molto vecchia. Novantatré anni, questo è il mio obiettivo. Una delle mie bisnonne è morta a 92, mentre una delle mie zie è deceduta a 101 anni. Quindi, mi permetto di credere che porto dentro di me i geni necessari per fare una grande vita, ai limiti dell’infinito.

Spero di avere una morte all’italiana. Perché all’italiana? Perché benché, ufficialmente, l’aspettativa di vita sia la stessa per i Canadesi che per gli Italiani, ho l’impressione che qui, ci sono più vecchi. Sono dappertutto. Nei bar, al mercato, in bicicletta. Tutti i giorni incrocio degli anziani di 75, 80, persino 85 anni, sulle loro bici e mi stupisco. Non ho mai visto ciò da noi. Dei vecchi Québécois in forma, ce ne sono (mio nonno faceva jogging fino a molto di recente e credo che lui cammini ancora 5 km quotidianamente), ma sono meno visibili. Meno temerari anche, direi. I vecchi Italiani non sembrano aver paura di fratturarsi il bacino o di rompersi un polso cadendo della loro cavalcatura. Forse è così perché hanno visto di peggio. La loro maggioranza ha vissuto la Seconda Guerra mondiale, ci ha partecipato, ha perso dei fratelli, dei bambini, degli amici a causa sua. Quindi non è un piccolo giro di bicicletta che gli spaventerà.

Ma non sono eterni, questi coraggiosi veterani – finiscono per cedere, anche loro. Mia suocera va quasi tutte le settimane alla camera mortuaria perché i genitori di persone che lei conosce muoiono. Quando uno fra loro trapassa, qualche ora dopo appena, si emette un’ avviso di decesso pubblico, che è apposto sui muri di certi edifici. Questi cartelloni decorano in permanenza la piazza. Non proviamo a camuffare la morte. La diffondiamo, la confrontiamo. La morte non è un’onta, è uno scioglimento ineluttabile, dunque è meglio ammettersela.
Martedì, 1° novembre, era la festa dei morti. In Canada, non la celebriamo da molto tempo, preferendole la serata che precede: l’Halloween. Ci mascheriamo da infermiera sexy o da vampiro disinvolto, ci ubriachiamo e vomitiamo perché abbiamo ingozzato troppi Rockets (sono caramelle). Non ci ricordiamo neanche perché facciamo così, da dove viene questa tradizione di suonare il campanello dei vicini per mendicare delle cochonneries (porcherie). Non sono né Hershey né Cadbury che hanno inventato l’Halloween, contrariamente a ciò che potremmo pensare quando entriamo in un Jean-Coutu (è tipo un Target) durante il mese d’ottobre. Triste blasfemo. In Italia, non festeggiamo l’Halloween. (F. ed io abbiamo avuto molte difficoltà a trovare delle citrouilles (zucche). Abbiamo finalmente messo la mano su due specimen che abbiamo decorato lunedì sera e che abbiamo illuminato con dei lampioncini. Dopo, abbiamo guardato il loro fuoco consumarsi mentre vedevamo Bettlejuice mangiando dei cupcakes alla zucca.) L’Halloween è una festa nord-americana. Gli Italiani se ne infischiano. Conta solo il 1° novembre, che è festivo qui.  

Il giorno della festa dei morti, la gente va generalmente al cimitero per fare visita ai loro parenti decessi. Gli portano un’offerta – dei fiori, un oggetto simbolico, una lettera – e si raccolgono davanti alla loro tomba o, più frequentemente, davanti alla nicchia dove riposa l’urna che contiene le loro ceneri. A dire il vero, la gente non si accontenta di andare al cimitero soltanto il 1° novembre. I più credenti, o i più nostalgici, ci si rendono relativamente spesso. Per pregare, rendere omaggio ai loro parenti, riflettere. Vado spesso a fare jogging sulla pista ciclabile che circonda il cimitero di Carpi ed ogni volta, incrocio delle decine di persone vestite sobriamente, munite di mazzi di fiori e di fazzoletti, che entrano e escono del cimitero. Tutti i giorni sono buoni per andare a salutare i propri antenati. Di fronte al cimitero, c’è un chiosco di piante e di fiori e, credete me, il suo proprietario deve fare degli affari d’oro, durante tutto l’anno.

Magari il mio punto di vista è falso, magari la mia percezione della realtà non è totalmente giusta, ma ho sinceramente l’impressione che qua, la morte è infinitamente più rispettata che da noi. Un’aura di solennità, di umiltà e di pietà la circonda. I riti legati alla sparizione di qualcuno dimorano ancora molto importanti, cosa che, invece, tende a sparire da noi. Mi sembra che la morte, vogliamo evacuarla, evitarla, nasconderla, dissimularla, negarla; vogliamo fare tutto salvo riguardarla in faccia. Celebrarla, prendere il tempo di viverla, ironicamente, di accettarla, di farla nostra, non se ne parla neanche. Ciò sarebbe davvero troppo esigente. E comunque, la spiritualità, l’anima, la devozione, la religione, l’aldilà, non sono nient’altro che delle sciocchezze, non è vero? Il nostro popolo ha cercato così forte di liberarsi dal giogo della religione cattolica che oggi, sembra che rigetti tutto ciò che ha un legame, da presso o da lontano, con lei. I discorsi che ci sono stati tenuti per tutto questo tempo sul soggetto dell’inferno e del paradiso, del purgatorio, dell’estrema unzione, del regno di Dio, dell’importanza di farsi perdonare i propri peccati prima di raggiungere il firmamento, non gli vogliamo più sentire. Abbiamo fatto tabula rasa. E la tavola è rimasta vuota. Nessuna concezione della morte è venuta a sostituire quella che la Chiesa ci forzava a indossare. Come se la morte era l’appannaggio di Dio. Eppure, la morte è umana, non divina.

Martedì, in occasione della festa dei morti, abbiamo fatto un pranzo di famiglia. Mentre preparavo il pasto, Luisa, la nonna di F., fumava una sigaretta sul balcone della cucina. Il padre di F. le ha detto « Luisa, perché fumi, non ti fa bene. » Lei ha risposto « Cosa può fare, è così che finiremo tutti, comunque: in cenere. » Non so se ho paura della morte. So soltanto che amerei arrivare, un giorno, ad avere una visione così lucida di ciò che mi aspetta, alla fine. 



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L'amore all'epoca della corruzione


Ci sono molte cose che non vi ho raccontate ancora. Ovviamente, vi ho nascosto diversi dettagli riguardando la mia vita quotidiana ma, ancora peggio, non ho condiviso con voi molte delle mie avventure fuori Carpi. Non vi ho ancora parlato della volta in cui sono andata a Verona, né di quella in cui sono tornata al Lago di Garda per una cena improvvisata, né delle mie due visite a Parma. E cosa dire di questa scappata al Monte Sole, che abbiamo fatta già parecchie settimane fa? Anche questa, ho omesso menzionarla. Non mi sono ancora preso la briga di terminare il racconto del mio week-end in Toscana. Ignorate ancora che dopo Firenze, sono andata a trovare F. a Lucca per un fine settimana romantico.

È quello che volevo raccontare oggi, questo famoso fine settimana nella simpatica e medievale città di Lucca.

Volevo parlarvi del splendido albergo della gioventù che si trova. Per sessanta euro la notte, abbiamo avuto diritto ad una camera a due piani con un letto matrimoniale, due letti gemelli, una tv ed una stanza da bagno. Incredibile. Volevo anche intrattenervi su tutti questi buoni piccoli ristoranti dove abbiamo fatto scalo nel corso del nostro week-end, sia per il pranzo, sia per la cena. Ho mangiato dei deliziosi tortellini in brodo in un’osteria veramente calorosa ed accogliente che ci era stata consigliata da una signora lavorando in una bottega, dove avevamo innanzitutto comprato dei prodotti tipici. Avrei avuto molte cose da aggiungere sui succulenti spiriti che abbiamo trovati in questo posto. Sarebbe stato facile intrattenervi per lungi paragrafi sulla bellezza sorprendente delle torri di Lucca, soprattutto di quella alla cima di cui sono stati piantati degli alberi, dell’atmosfera di festa e di benessere che regna in questo borgo che è ancora oggi circondato dai muri eretti dai Romani, muri che formano un anello di cinque chilometri su qual è possibile far una passeggiata a piedi o in bicicletta o fare il suo jogging.  Avreste potuto farvi una bella risata se vi avessi descritto il momento in cui abbiamo appunto noleggiato un tandem per percorrere questi superbi sentieri. La storia avrebbe potuto continuare con l’evocazione delle due o tre ore che abbiamo trascorse al orto botanico, oppure di quelle in cui abbiamo deambulato nel centro storico che era invaso da un mercato di oggetti antichi, devo dire, piuttosto impressionante. E avrei forse mancato di parole per permettervi di ben capire l’emozione che abbiamo risentito quando siamo rientrati in questa enoteca dotata di un’immensa cantina dove c’era un odore di polvere, di legno umido e di vecchi tannini e che racchiudeva dei tesori incredibili. Avrei potuto terminare il tutto spiegandovi perché siamo passati da Pisa prima di tornare a casa, enumerandovi i piatti squisiti che abbiamo assaporati in uno dei nostri ristoranti preferiti, le Repubbliche Marinare, e vantandovi la bianchezza di Pisa, il suo cielo azzurro, i suoi ricciarelli da non perdere. Ma non lo farò.

Non indugerò di più su ciascuno di questi elementi, eppure molto interessanti, perché, io, non è quello che ha trattenuto la mia attenzione. Quello che mi è rimasto di questo week-end non ha niente da fare con dei monumenti del medioevo, dei pasti divini, dei luoghi sorprendenti, delle passeggiate bucoliche. Il ricordo il più potente che conservo di questa scapata in Toscana non è tanto legato al luogo stesso che a come mi sono sentita. Durante questo week-end, ho capito che ero veramente innamorata.

F. sembra a volta interpretare la parte di una semplice abbreviazione – una lettera seguita di un punto. Apparisce in molte delle mie avventure come un personaggio secondario, tuttavia, lui rappresenta molto di più. F. è il centro della mia vita. Non risento sempre il bisogno di parlare di lui, di specificare che era la, con me, perché questo va da sé nella mia mente che lui è presente. Non posso immaginarmi fare tutte queste cose senza di lui. Gli eventi importanti, li vivo con F. Mi accompagna, mi sostiene, mi fa ridere, mi delude ogni tanto, perché è un umano, ma lui sa cosi bene redimersi. F. è mio marito. A volta, non me ne rendo conto. Sono sposata. Mi sembra ancora strano dirlo. Tuttavia, non potrebbe essere altrimenti per me. Sposarmi con lui fu la più bella delle pazzie che ho fatta nella mia vita. Abbiamo deciso farlo molto rapidamente, dopo appena dieci mesi di frequentazione, ma ci sembrava l’unica cosa da fare. Una certezza nel profondo del ventre, una voce che ci mormorava: non avete paura. Con F., non ho paura di niente. Insieme, possiamo far tutto. Il mondo ci appartiene e l’impossibile è soltanto una stella lontana appena osservabile durante le serate di cielo terso.

Non so cos’è l’amore per gli altri, non credo che esista un’unica definizione di questo sentimento talvolta sconcertante, talora salvatore, talvolta straziante, talora riparatore. Ma per me, l’amore è F. Lui è il mio confidente, il mio amante, il mio miglior amico, colui chi mi conosce di più su questa terra, probabilmente più che mia madre; è colui con chi mi piace andare al cinema, fare shopping, camminare nella foresta, visitare dei musei, pianificare dei viaggi, perdermi, fare dei giri in macchina, del jogging, delle torte; lui è l’uomo del presente e del futuro, colui con chi l’avvenire diventa immaginabile, con chi concepisco mille progetti irrealizzabili e mille altri che porteremo felicemente a termine, insieme, sempre, perche in due, sappiamo che possiamo compiere grandi cose. La prossima essendo, lo speriamo, di fare dei bambini. Spero che avranno la sua pazienza, la sua sensibilità, le sue orecchie, il suo mento, la sua resistenza, la sua apertura mentale, la sua bellezza interiore.

Lucca, per me, si riassumerà sempre a questo: la città dove mi sono innamorata di mio ragazzo per la seconda volta. E quella dove mi sono detto che Luca, sarebbe un bel nome per un piccolo bimbo.



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La felicità è un caso


Adoro la Toscana. Ciò cade a proposito, perchè è la regione che si trova giusto sotto la mia Emilia Romagna adottiva. E' sufficiente attraversare alcune montagne e si arriva a Firenze. È là mi sono recata giovedì scorso, un po’ all'improvviso. Ci sono andata per ritovarmi con alcuni amici che facevano un passaggio lampo in Italia. Siccome dovevo incontrarli non prima del tardo pomeriggio, ne ho approfittato per gironzolare sola, senza meta, in questa magnifica città che non avevo più rivisto dal mio viaggio del 2002. A dire il vero, era la prima volta che rimettevo piede in una città italiana che avevo visitato durante il mio primo soggiorno italiano, poiché finora avevo sempre preferito delle mete nuove. Ed è stata una forte emozione, mi sono sentita come catapultata nel passato.

Serbavo un ricordo molto sfocato della bella Firenze, mentre, appena scesa dal treno, mi è ritornato tutto chiaro. La Cattedrale Santa Maria del Fiore, così immensa da dare dei brividi, la replica del David in Piazza della Signoria dove, all'epoca, J. ed io ci siamo divertite a giocare con la prospettiva e "le zizi "del grande adone bianco; il barocco Ponte Vecchio, dove sono amalgamati alcune decine di piccole botteghe in legno colorate, oggi occupate unicamente da venditori di gioielli per i turisti; la vista splendida si San Miniato al Monte. Non sono entrata in nessun museo, mi sono accontentata di lasciarmi assorbire dall'atmosfera di questo gioiello del Rinascimento che è Firenze. Sempre più amo viaggiare così: camminare, solo camminare, nel cuore di città sconosciute le cui mura, le strade, i mercati e i passanti hanno molto da dirci.

Alla fine della mia passeggiata, ho raggiunto la mia amica ed alcuni altri Québécois che l'accompagnavano nel Piazzale Michelangelo. Due di loro hanno deciso di seguirci per bere un bicchiere nel simpatico quartiere di San Frediano. Ci siamo ritovati al Volume, un posto molto accogliente, un po’ "hipster", ma, tutto sommato, piacevole. Siccome io ero l'italiana di turno, è toccato a me fare l'ordinazione, per scoprire che il cameriere era francese; bisognava dunque fare attenzione a quello che si diceva! Era così piacevole essere circondata da persone che parlavano la mia lingua, di poter dire tutto quello che mi passava per la mente senza dover riflettere cinque minuti prima di formulare una frase, di fare delle battute, di essere me stessa, punto. Non me ne rendo più conto troppo nel quotidiano ma, a volte, mi pesa vivere nella lingua di qualcun altro. Il mio italiano migliora costantemente, diventa sempre più facile comunicare, ma non è mai come comunicare in francese. In poche parole, dopo tre mesi di vita all'estero (sì, già tre mesi), questa piccola pausa québécoise mi ha fatto un gran bene.

Dopo l'aperitivo, abbiamo cercato un ristorante dove poter mangiare una cucina tipicamente toscana e continuare a bere del buon vino. Alcuni luoghi erano poco invitanti, altri troppo cari, altri completi. Finalmente ci siamo fermati in un posto dalla decorazione colorata e il cui personale era veramente simpatico. Ignoro se la loro gentilezza era dovuta al fatto che mi rivolgevo loro in italiano, ma non ho mai avuto un'accoglienza così calorosa in Italia! Onestamente, gli Italiani non sono sempre i più gentili, ma là noi abbiamo avuto il massimo. Dal momento che avevano detto ad altri clienti che non avrebbero avuto posto fin dopo le 22, a noi hanno offerto un tavolo in meno di 15 minuti. Abbiamo aspettato fuori, perché all'interno lo spazio era veramente esiguo. Ad un certo punto, quando ho visto che rifiutavano altre persone, ho domandato loro se avevo ben compreso di aspettare e che avremmo avuto un tavolo; mi hanno rassicurato che sì e mi hanno chiesto se volevamo bere un bicchiere di bianco nell'attesa. Perché no! Bianco? D'accordo! Ci siamo gustati il nostro bicchiere di bianco seduti sul marciapiede di questa stradina stretta, facendo attenzione a non farci tranciare le dita dalle macchine che andavano un po’ troppo forte. La vita a volte sa essere magica.

Finita la cena, prima di andare via, il cameriere e il titolare ci hanno stretto le mani e ci hanno detto, con enfasi, che era stato un grande piacere servirci. Veramente, penso che ci abbiano scambiato per altre persone, perché la loro devozione ed la loro educazione erano quasi esagerate. Comunque tutto ciò non è stato sgradevole, anzi al contrario! Dopo le strette di mano, ci siamo dovuti sbrigare perché i miei amici dovevano ritornare a Montecatini e l'ultimo treno era alle 22:08. Li ho dunque accompagnati alla stazione per poi ritrovarmi sola nel centro di Firenze. Sfinita dalla mia giornata, volevo prendere l'autobus per recarmi all'ostello della gioventù dove avevo prenotato, per rendermi conto però che, dopo le 22, non ce n'erano più.Un po' ridicolo, quando si pensa che è l'unico modo per recarsi all'ostello a parte il taxi e che la maggior parte delle persone che scelgono di dormire in quel luogo non hanno 15 euro da spendere per un taxi, ma  d'altronde, non avevo né la forza, né il coraggio di camminare per 5 chilometri per le strade di una città sconosciuta. Ho così pagato i famosi 15 euro - vedi mamma, alcune volte sono saggia. Saggia, ma neppure così impetuosa come un tempo. Non potrei più percorrere l'Europa per tre mesi con soltanto 3000 dollari, come ho fatto allora...

Arrivata all'ostello, ancora una volta, mi sono riaffiorati tonnellate di ricordi. Probabilmente mi sbaglio, ma ho avuto l'impressione di trovarmi nella stessa camera del mio precedente passaggio, nove anni fa. Ora, stavolta, ero sola in una camera per quattro persone. Avrei dovuto dormire bene, invece, per niente. Carica di adrenalina e disturbata da voci che provenivano dal corridoio, non sono riuscita a chiudere occhio fino alle 2. La mia notte è stata caratterizzata da sussulti provocati da violenti colpi di cui ignoravo l'origine. Al mattino, con gli occhi cerchiati, ho scoperto che era il vento che faceva sbattere le imposte delle finestre, rumore che l'eco di questo immenso maniero, trasformato in ostello per giovani squattrinati, si divertiva ad amplificare. Ho fatto colazione, domandandomi come facevo un tempo ad accontentarmi di questo pane secco e del pessimo caffè come primo pasto - e spesso come secondo, poiché noi trafugavamo alcuni pezzi di pane e della marmellata per prepararci dei pranzi poco dispendiosi. Decisamente, i miei criteri di viaggiatrice e la mia tolleranza alle scomodità e ai pasti insipidi non sono più gli stessi.

Ho pagato la mia notte in bianco, ho chiuso il mio zaino e sono partita. In attesa alla fermata dell'autobus, altri ricordi si sono cristallizzati davanti ai miei occhi nostalgici. L'ultima volta in cui ero in attesa alla stessa fermata, J. ed io eravamo nervose. Fuggivamo. Avevamo fretta che l'autobus ci portasse lontano da Maxime, un Québécois che avevamo incontrato a Reims, una settimana prima, e che poi ci aveva seguito dappertutto. Non ne potevamo più di lui, della sua arroganza, delle sue maniere maldestre. Eravamo partite dall'ostello senza avvertirlo, nella speranza di seminarlo. E funzionò. Per il momento. Circa due settimane più tardi ci aveva ritrovate. Nel pieno cuore di Atene. Un caso. Non tutte le coincidenze sono felici.

Io, invece, seduta su questa banchina ad attendere l'autobus numero undici, felice, lo ero.



 ***


Viaggio leggero
Due primi capitoli


Linea di fuga


Non avrei mai creduto che la fine del mondo si sarebbe sviluppatta così con calma.

Il taxi clacsona, due piccoli colpi impazienti. Gli faccio un segno attraverso la finestra – arrivo, un attimo. Ho chiuso tutto dietro di me. La notte è densa e la neve cade a pieno cielo. Domani tutto sarà ricoperto, ma niente sarà stato cancellato per quanto. Il tempo fa di testa propria e l’autista scruta la mia con una faccia strana. L’interno della macchina ha un odore di sigaretta camuffato con un profumo di vaniglia artificiale.
-                Dove va?
-                Aeroporto.
-                E le sue valigie?
-                Questa, qui.
Inizia il tassametro. Il silenziatore della macchina è difettoso, fa un rumore infernale. Tutti sentono la mia partenza, ma le finestre sono vuote. Nessuno dentro per dirmi arrivederci. Solo la neve che piomba sui vetri, come diecimila fazzoletti bianchi. Non allaccio la mia cintura di sicurezza, cingo soltanto la mia valigia chiudendo gli occhi. Rossi. Gli occhi, e la valigia. I fiocchi nei miei capelli si sciolgono e mi rigano il volto. Non piango mica.
L’autista ha appena bruciato il semaforo. La strada è deserta, lui non ha messo delle vite in pericolo, neanche le nostre. È soltanto partito prima del tempo. Nessuno ha provato a fermarci. A chi importa, alla fine, che facciamo ciò che vogliamo senza preoccuparci dei limiti? Sono le quattro della mattina ed è ognun per sé.
Mi devo essere assopita nella macchina, siamo già arrivati. Appena pagato il conto, richiusa la portiera, l’autista riparte. Un nuovo cliente alza la mano, qualche metro più lontano. Era idiota credere che provasse a convincermi di restare.
  



Punto di partenza


La camera fa parte di un’epoca scomparsa. Come se il tempo fosse passato, ma che le lancette degli orologi avessero girato solo su loro stesse. La luce sintetica della plafoniera si biforca sullo specchio, che riflette l’immagine del televisore spento davanti al quale sto in piedi senza muovermi. Fisso questa donna con un viso smorto che non è me. Magari il fantasma di un’ex cliente confusa, suicida a colpi di compresse di aspirina e di whisky. Mi siedo sul letto e non tolgo il mio cappotto.
Alcun messaggio sulla casella vocale. Evidentemente. Rido. Nessuno sa che sono qui. Non so più chi sono e questo posto non esiste. Somiglia piuttosto a un ricordo di quello che è già stato la vita.  Quaranta anni fa, quando non ero nata. È bene essere in un luogo dove l’esistenza è da venire, dove tutto rimane da costruire. È probabilmente quello che chiamiamo speranza. Però, non so più, sono stanca.
Le molle del letto scavano la mia schiena. Il cotone delle federe ha lo stesso odore che il sottosuolo dalla nonna – tabacco, umidità e palline di naftalina. La camera diventa il guardaroba di cedro, dove nonna riponeva la biancheria da letto e le pellicce. Era una donna carina e insoddisfatta. Si lamentava costantemente, di un male o di un altro. Doveva essere assai infelice, però, un bambino, cosa conosce della felicità? Mi addormentavo sui vestiti impilati dentro il guardaroba senza sforzarmi di assaporare nessuna cosa, né il momento presente né il seguente. Se qualcuno mi avesse detto che quello che stavo vivendo in quell’attimo diventasse un giorno uno dei miei più bei ricordi, avrei creduto fosse un brutto scherzo di adulto. Sono stanca. Vorrei aver otto anni e che ogni volta sia la prima.
L’aria è pesante come una vecchia trapunta. La condensazione sulla finestra impedisce ogni sguardo verso l’esterno. Vorrei scrivere qualcosa con il mio dito, nella condensa, ma non mi viene niente. Non ho un piano. Domani mi sembra una possibilità tra altre. La testa vuota. Il rubinetto della vasca da bagno perde. Il ritmo. Penso alla goccia. A tutta quest’acqua che si perderà. È triste e nello stesso tempo rassicurante sapere che alcune cose non hanno utilità. Soltanto essere là.


 ***
Come dei bambini le farfalle



Tenere questo blog mi obbliga a guardare la mia vita con un occhio differente, a chiedermi costantemente « cosa vale la pena di essere raccontato ? ». In quanto scrittrice, è una domanda assai fondamentale con le quale mi sono spesso confrontata, ma il fatto di pormela in rapporto alla mia vita è piuttosto inusuale. Non mi sono mai cimentata nell’autobiografo o nel diario. Descrivere quello che mi è realmente successo, piuttosto che inventare quello che potrebbe accadere nei giorni di qualcuno che non esiste – e che non è me –, ciò non aveva mai fatto parte del mio processo.  Ammetto che questa prospettiva finora inesplorata m’illumina molto sulla natura della narrare. Le mie domande riguardanti ciò che, della mia esistenza, può colpire la vostra attenzione mi spingono parallelamente a riflettere su quello che merita di essere detto o no nelle mie finzioni.

Mi rendo conto che poche cose non meritano di essere trasformate in storie. La sfida sta sempre, semplicemente, nel trovare un modo interessante di metterle in scena. Ci riesco sempre ? Non ne sono convinta. Ma resta che mi accorgo che ciò che mi affascina di più in un racconto, sono i dettagli. Quello che abbiamo mangiato, il nome delle persone, un tratto fisico che ci permette subito di capire con chi abbiamo a che fare, l’angolo della luce, il modo in cui una parola è stata pronunciata. Perché ciò è la vita: una catena di dettagli insignificanti che, una volta elaborata dal nostro cervello, ricostruita, rimaneggiata, spostata, riformulata – sonni, ricordi, desideri, futuro fantasticato –, finisce col trovare un senso.

Perché vi racconto tutto questo? Forse per scusarmi di indugiare a volta un po’ troppo su delle cose che possono sembrarvi futili. Forse per giustificare il fatto che ciò che vi raconto qui, sono raramente delle grandi epopee, incredibili avventure, ma piuttosto degli aneddoti banali, degli intrighi poco intriganti, alla fine. Però, quello che dovete appunto sapere è che la vita, qua o altrove, a casa propria o in terreno sconosciuto, non resta altro che la vita – una catena di dettagli insignificanti che, una volta elaborata dal nostro cervello, ricostruita, rimaneggiata, spostata, riformulata, ecc., ecc.

Partire del Québec pensando di trovare in Italia un’esistenza ad ogni secondo più eccitante, un quotidiano meno abitudinario, delle gioie più straordinarie, delle delusioni meno fastidiose, quello sarebbe stato un errore. Non sono partita per un viaggio; sono partita per vivere altrove. E dal momento che uno sceglie di fermarsi da qualche parte, di costruirsi qualcosa che assomiglia a una casa e di scegliere il proprio domicilio per un certo periodo di tempo, immancabilmente, egli deve aspettarsi di ritornare se stesso, di riprendere le sue vecchie abitudini, di rinchiudersi nelle stesse disperazioni, a cercare, ancora, sempre, dei modi per migliorare il proprio destino, di fare, all’infinito, dei progetti per questo futuro che ci angoscia.

Abbiamo visto questa sedia nella vetrina di un grande negozio. Rossa. Un cuscino morbido, dei braccioli solidi. Aveva l’aria perfetta. Ce la siamo procurata, convinti che finalmente, saremmo stati comodi, che finalmente, avremmo potuto concentrarci su quello che importa veramente, lavorare ad inventare la nostra fortuna senza essere costantemente impacciati dalla scomodità dell’altra sedia, quella che ci ha accompagnati per già troppo tempo, quella che non ci si addiceva più. Una volta installata la sedia nuova fiammante nella nostra dimora, la osserviamo, ci estasiamo, traiamo un sospiro di gioia – la novità è sempre così inebriante. Ci sediamo. Aspettiamo. Sorridiamo. Poi, un po’ meno. Occorre metterci al lavoro adesso. È molto bello avere un nuovo trono sul quale sedersi, ma quello non assumerà le nostre responsabilità al nostro posto. I giorni passano. I tessuti della sedia si allentano, l’imbottitura si rammollisce, prende poco a poco la forma delle nostre coscie, della nostra schiena. Quella si curva, come prima, piegando sotto il carico troppo pesante dei pensieri che ci turbano. Le nostre gambe s’intorpidiscono. Eppure, il commesso ci aveva detto che con questa sedia, la nostra posizione si sarebbe migliorata, che non avremmo mai sofferto più dei vecchi mali.

La verità è che una volta che la nuova sedia modella le curve del nostro corpo, una volta che quello si è adatto al cambio, la sensazione di benessere dei primi giorni si attenua. Lentamente, l’ispirazione, la freschezza e l’esotismo fanno posto all’abitudine, ai riflessi, alla spossatezza. Di nuovo, proviamo un bisogno urgente di trasformazione, di sorpresa, di cambiamento, di un altro luogo. La fortuna non è destinazione, ma orizzonte. Incessantemente, fugge dalle dita che tentano di acchiapparla come dei bambini le farfalle.

Non v’ingannate, sono felice in Italia. Né più né meno che lo ero a Montréal. Felice punto. Come solo è possibile esserlo: a intervalli.



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